ARCHIVIO CAMOGLI IERI

3730         L' INFERNO        
Autore: Marcello Bozzo         bozzo@agenziabozzo.it
Epoca:  anno 19
53 c

Origine: archivio                   -                 Fotografo: sconosciuto

NOTE:

Un grosso motoveliero ai lavori occupa quasi tutto lo spazio dello scalo.

La chiatta, che in tempo di guerra era all'ormeggio in porto, ora è in secca sul moletto del cantiere.

Per noi ragazzini degli anni '50 l' Inferno - così comunemente si chiamava il cantiere navale - era il parco giochi più divertente di tutti.

Vedere i cantieranti (io avevo uno zio tra di loro) gettare l'invasatura in mare, fissarla con il palombaro sotto il bastimento e, serrata con i ferri traversi ed alata con il cigolìo dei cavi agli argani, le pulegge e le pastecche (paranchi a due vie con guancia apribile per far passare il cavo in tensione), portare lo scafo lentamente in secca con l'opera viva (la parte di scafo che sta sott'acqua) grondante di mare dal muschio e dalle alghe che vi si erano attaccate e che all'asciutto emanavano presto il loro acre caratteristico odore. Tutto ciò era solo la prima parte di una lunga e divertente giornata.

Il pomeriggio, quando il muschio ed "i tettinotti" (sorta di alghe che trattenevano l'acqua ed ospitavano le teredini (grossi vermi che divoravano il legno del fasciame) erano ancora molli, assistevamo alla raschiatura dell'opera viva, portata a legno.

Il giorno dopo i maestri d'ascia sagomavano e sostituivano i corsi di fasciame rotti, forati o marciti e, controllata chiglia e le ordinate, lasciavano il campo ai calafati che, seduti sulla "marmotta" (la cassetta dei ferri), iniziavano a battere ritmicamente i loro tipici martelli di legno sullo scalpello incavato che forzava la stoppa ad entrare tra le assi del fasciame. Questo continuo battere e levare segnava il tempo della giornata.

Per assistere al clou del divertimento attendevamo il giorno del "catràn": quando nell'aria d'ogni angolo di tutto il porto si sentiva forte ed aspro l'odore del bitume che bolliva, era il segnale: tutti andavamo al cantiere a vedere gli uomini che, muniti di un lungo frattazzo, lo intingevano nei barili del bitume che stava a far bolle sul fuoco per poi passarlo a più mani sullo scafo dove, tra fumo, odore, sudore e scottature, diverse mani di nero si rapprendevano rendendo lo scafo impermeabile per un altro anno.

Il giorno dopo assistevamo al gran finale dell'ultimo atto: sotto lo sguardo contento e soddisfatto dei maestri e dei calafati, la nave lasciava il cantiere, a stento trattenuta dalle cime di canapa che fumavano sfregando sui bittoni mentre si  lanciava in mare tra due baffi di schiuma per riprendere la sua corsa in mare aperto.

E noi attendevamo ai nostri giochi in attesa del prossimo odore di alghe in decomposizione.

Non avevamo il cellulare né i videogames, ma noi, bande di ragazzini tra i sei ed i quindici anni, eravamo liberi di andare dove volevamo senz'alcun controllo e nulla mai ci successe.

Unico limite invalicabile erano il buonsenso e l'ora stabilita per il ritorno: "A casa alle sette!" voleva dire che alle sette e cinque erano sberle che raddrizzavano i più riottosi.

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